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Suono come…

.. su di un ponte pianissimo e lentamente camminavano …

.. nel tempo rubato della mezzanotte si rincorrevano ..

.. crescendo a poco a poco si cercavano ..

.. arpeggiando e allargando il desiderio si accarezzavano ..

.. in un ppp il più piano possibile, morendo, si dissero un finto arrivederci, nella notte ..

Al chiaro di luna.

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

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Ascolta.

Fonte Immagine Google.

“Quando qualcuno ti ascolta davvero senza giudicarti, senza cercare di prendersi la responsabilità per te, senza cercare di plasmarti, ti senti tremendamente bene. Quando sei ascoltato e udito, sei in grado di percepire il tuo mondo in modo nuovo ed andare avanti”.

Carl Rogers.

La capacità di attuare un ascolto empatico, sincero e attento è un cardine della mia professione; qualcosa in cui da sempre credo. Il canale uditivo (a cui sono legata anche a causa dell’altra parte delle mia vita, quella fatta di suoni e musica) ha il potere di creare sintonizzazione con il detto e il non detto.

Ognuno può dire “cosa meglio crede”; le parole possono essere usate in un certo senso a piacimento e di converso, colui o colei che ascolta può filtrare l’informazione e comprenderla (o meno), come meglio crede.

I suoni: acuti, gravi, sussurrati, soffiati ad orecchie più o meno empatiche dicono di noi; raccontano o restano muti..

Dire mentre non si dice o non dire mentre si dice, implica avere dall’altro lato qualcuno che sia pronto a ricevere una informazione non necessariamente chiara, a cui non va applicato giudizio, a cui non va risposto “tu sei”.. ma

“Come pensi tu possa essere?”.

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

Musical/Mente: gli effetti delle musica sui bambini.

Fonte Immagine “Google”

La vita dell’essere umano è scandita fin da subito (dall’esperienza intrauterina), dalla presenza del ritmo. Le esperienze prenatali includono infatti la regolare presenza del battito cardiaco e del respiro materno; esperienze a cui seguirà dopo la nascita l’uso di tutta una serie di “suoni” che chi si prende cura del bambino, userà per comunicare con quest’ultimo/a. Tra i primi suoni utilizzati per comunicare o attirare l’attenzione del bambino, abbiamo l’uso delle filastrocche o ninnenanne.

Le filastrocche o comunque tutte quelle canzoncine usate, sono di solito caratterizzate da elementi comuni ovvero: estrema regolarità, semplicità e ripetitività. Si tratta in sostanza di canzoncine molto semplici (sia dal punto di vista ritmico che melodico), che riescono a creare come una sorta di sospensione, di attesa, un “prima o poi qualcosa accadrà”, che riesce a tenere i bambini calmi e sereni, analogamente a quanto accadeva quando nell’esperienza intrauterina erano cullati e coccolati dal suono della voce materna.

Numerose ricerche hanno affrontato il tema poc’anzi esposto. In generale si potrebbe dire che tutti nasciamo con una “certa” predisposizione ai suoni (proprio in vista delle esperienze intrauterine vissute), tuttavia i ricercatori hanno deciso di indagare ulteriormente la questione. Si è quindi deciso di valutare se, in qualche modo, essere sottoposto a giochi o attività musicali abbastanza precocemente possa rendere successivamente più bravi a distinguere/riconoscere i suoni oppure a percepirne la loro regolarità/irregolarità. La domanda a cui provare a rispondere diventa pertanto se l’allenamento possa essere un valido aiuto nello sviluppare la capacità di elaborazione dei suoni, oppure se solo chi in partenza ha una sensibilità più spiccata è poi successivamente più propenso a dedicarsi alla musica.

Christina Zhao e Patricia Kuhl, dell’Università di Washington, hanno distinto le due possibilità dividendo circa 40 bambini di nove mesi in 2 gruppi e facendoli poi giocare per un mese con i genitori: un gruppo ha ascoltato musiche complesse (ad esempio un Valzer) aiutando i genitori a batterne il ritmo mentre l’altro gruppo si è dedicato a giochi come quello delle macchinine; gioco simile a quello dell’altro gruppo (in termini di intensità e interazione di movimenti), ma senza musica.

Lo step successivo è stato far ascoltare altre musiche dai ritmi simili ma con anomalie e interruzioni del ritmo. I successivi esami dell’attività cerebrale (magnetoencefalografia) hanno mostrato che chi aveva ascoltato musica attivava di più le aree uditive e la corteccia prefrontale in risposta alle anomalie; si dimostrava pertanto una maggior capacità di attenzione e analisi dei suoni. Il dato interessante fu tuttavia un altro, ovvero che questi bambini erano anche maggiormente capaci di attivare una “risposta” in seguito all’ascolto di una lingua straniera.

“L’ascolto musicale precoce sembra migliorare la capacità dei bambini di decodificare suoni complessi individuandovi regolarità, un aspetto importante nella comprensione del linguaggio, e quindi potrebbe favorire anche l’apprendimento linguistico”, Zhao et Kuhl, “Proceedings of the National Academy of Sciences”.

L’importanza dell’educazione all’ascolto musicale fu compresa anche da Maria Montessori che nel suo testo “Il metodo della pedagogia scientifica”, comprese come “la musica aiuta e potenzia capacità di concentrazione, ed aggiunge un nuovo elemento alla conquista dell’ordine interiore e dell’equilibrio psichico del bambino” evidenziando inoltre come questa capacità fosse di sostegno allo sviluppo del linguaggio e all’ampliamento del vocabolario.

Da musicista e psicologa ho sempre sostenuto l’importanza della musica. Credo sia fondamentale potenziare l’educazione all’ascolto; la capacità di concentrazione e sintonizzazione sul proprio e altrui Sè, che ascoltare un qualsiasi pezzo musicale richiede, è un potente mezzo nonchè una potente risorsa che l’essere umano ha. Investiamo tanto tempo nella velocità del nostro tempo moderno, dimenticando di fermarci ogni tanto, anche solo per una piccola pausa. E’ la musica che ce lo insegna.. ogni tanto prendiamo un piccolo respiro, un piccolo silenzio tra le mille note che riempiono la nostra giornata e impariamo ad ascoltare.. più intensamente. Di più.

“Finisce bene quel che comincia male”

Dott.ssa Giusy Di Maio.

Il suono del silenzio.

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Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, 1818. (Immagine Google).

 

In un’epoca in cui sembra che l’unico modo per far valere il proprio pensiero o la propria opinione, sia urlare; in un momento storico in cui sembra che l’unico mezzo per dire “io ci sono”, sia prevaricare sull’altro utilizzando toni sempre più accesi, desidero condividere con voi un aneddoto accaduto durante una lezione universitaria.

Un giorno di un Maggio caldo e afoso, durante una lezione di Teorie e tecniche del colloquio clinico, la docente (già piuttosto abile a mantenere alto l’interesse durante le lezioni), col suo caratteristico tono calmo e lento, rese la lezione ancor più interessante ponendo un quesito dalla risposta tutt’altro che scontata.

“Immaginate che arrivi da voi un paziente, e che questo paziente, nonostante sia venuto di sua spontanea volontà: non parli” . Che fareste?

Fu così che alla quiete e a quella sensazione quasi di ovattato, si sostituì un brusio sempre più forte, che giunse al culmine con gli interventi dei colleghi. Alcuni sostenevano l’importanza di insistere sul perché il paziente di turno non parlasse, giungendo persino a sostenere di dover somministrare dei test per valutare il livello della sua “comprensione verbale”; altre risposte molto gettonate furono “demenza, psicosi, disturbo dello spettro autistico…”. La vastità delle risposte possibili, fu interrotta dall’intervento della professoressa che – con tutta la pacatezza possibile – rispose “non dovete fare nulla”, dovete “imparare ed essere capaci di tollerare la confusione dell’altro”.

Imparare il (e dal) silenzio: il silenzio del suono.

“(…) Forse preferisce restare in silenzio qui con me. Il terapeuta trasmette così non solo l’accettazione del silenzio, ma anche un messaggio che il paziente non è solo durante il silenzio”. Glen Gabbard

Ciò che stava succedendo nell’aula precedentemente citata, era dare per scontato che le persone siano tutte uguali, e che un silenzio non ne differisce da un altro, in quanto semplicemente silenzio. Quanto appena detto, è per forza di cose non corretto; non esistono (infatti)  “le persone”, ma tutto un complesso di vissuti, eventi e substrati psichici che fanno sì che ogni persona sia unica e diversa. Ciò comporta che ciascuno elabori (ad esempio) un evento, sulla base di una complessa rete di processi psichici (per lo più inconsci) che restituiranno di quell’evento una traccia mnestica interpretata dallo specifico soggetto a cui è capitata[1]. “Un periodo di silenzio può essere il contributo più positivo che il paziente può offrire”[2], il terapeuta infatti potrà cogliere questa occasione per spostare la propria attenzione dal contenuto delle comunicazioni e associazioni del paziente (compreso ciò che non viene detto), per dare importanza ai comportamenti del paziente, a come questo entra o esce dalla stanza, alla gestualità o la postura, dettagli che consentono di portare alla luce le fantasie inconsce del paziente.[3]

Un silenzio non è mai completamente “silenzioso”.

Per quanto silenzioso, triste o scontroso, l’essere umano non è mai completamente silenzioso. Una persona parla, dice e racconta… può riempirci di parole quando ha paura di sentirsi vuota o può “sembrare vuota” quando invece si sente talmente piena da non sapere da dove iniziare. Parole confuse, frammentarie o non dette, “ci parlano” analogamente a discorsi veloci, rapidi e snelli.

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Non resta che strizzare ancora l’occhio alla musica, per concludere circa l’importanza del silenzio.

Il compositore d’avanguardia John Cage, ha composto un brano per orchestra “4 minuti e 33 secondi”, proponendo agli ascoltatori 4 minuti di silenzio .  Di seguito un frammento su quanto scrive Cage, a proposito della difficoltà nel comprendere il suo brano, “(…) poiché non erano capaci di ascoltare (…) Si sentiva il vento sibilare fuori dalla finestra, la pioggia tamburellare sul tetto, e il mormorio delle persone sorprese”.

Dott.ssa Giusy Di Maio

John Cage

 

 

[1] Ciò aiuta a comprendere perché ad esempio persone testimoni di un medesimo evento, ne diano spesso un racconto differente.

[2] Cfr., “Sviluppo affettivo e ambiente, Donald W. Winnicott, Armando Editore, 2000.

[3] Cfr.,Diomira Petrelli, Fantasia inconscia, l’organizzazione mentale precoce secondo Susan Isaacs, Prima edizione, Marzo 2007, Il pensiero scientifico editore.