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Il mediatore

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Con all’approfondimento odierno presenterò al lettore la figura del mediatore. Muoviamo -ancora una volta- intorno all’ambito penale minorile (anche se la figura del mediatore può essere d’aiuto oltre all’ambito che a breve conosceremo, anche in quello scolastico e familiare).

Presenterò -pertanto- le strategie possibili per quanto concerne l’intervento delle istituzioni e la presa in carico nei servizi territoriali quando lavoriamo con minori autori e vittima di reato.

Cosa di intende per mediazione?

La mediazione penale minorile assume, oggi, un ruolo fondamentale questo secondo quanto sancito dai nuovi Principi di Legge che prevedono l’obbligatorietà dell’azione mediata in tutte le sue possibili accezioni*.

La mediazione può pertanto venirsi a trovare nei diversi contesti di vita: scolastico, familiare, penale, sanitario e sociale.

Il mediatore.

Compito del mediatore è favorire la comunicazione tra due o più soggetti che sono tra loro in conflitto: l’autore e la vittima del reato. Si tratta di un lavoro di promozione (in sinergia con altri professionisti) di progetti rieducativi finalizzati alla riabilitazione del reo in carcere nell’ottica e nell’esigenza di un suo efficace reinserimento sociale, come da principio guida del processo penale minorile italiano.

Il mediatore penale minorile applica le proprie competenze rispondendo a due fondamentali esigenze di Giustizia:

1) offrire attenzione ai protagonisti della vicenda penale: alla vittima (alla quale viene conferito un ruolo più attivo di quanto accade nel procedimento penale), e al reo (ponendo in essere la concreta opportunità di accedere a modalità riparative responsabilizzanti).

2) riguarda invece l’attenzione specifica nei confronti del minore reo una volta all’interno del contesto penitenziario, promuovendo progetti ed attività di intervento a scopo rieducativo e riabilitativo.

I mediatori mirano pertanto alla risoluzione del conflitto (da intendere in maniera ampia ovvero come un confronto tra due parti che può o meno sfociare in conflitto aperto o essere latente) attraverso l’intervento di un professionista neutrale e imparziale che miri a rendere più agevole l’incontro tra le parti portando ad una soluzione pacifica.

Mediazione penale.

Lo scopo della mediazione penale è quello di proporre un modello di risoluzione dei conflitti alternativo rispetto al tradizionale processo giudiziario, mediante la realizzazione di interventi che mirano più alla ricomposizione delle relazioni che alla ricerca della verità giudiziaria. Si caratterizza per il carattere confidenziale della discussione e per la neutralità dei luoghi in cui si svolge. Incontrare la vittima è considerato utile sotto il profilo educativo ma anche di cruciale importanza per iniziare un reale processo di reinserimento sociale. La presa di contatto (materiale e non simbolica) con la vittima e la ricerca comune di una risoluzione pacifica del conflitto sono elementi importanti.

Rendere il minore reo protagonista, insieme alla vittima, del futuro dei loro reciproci rapporti consente ad entrambi una conoscenza dinamica della rispettiva personalità col risultato di ottenere un effetto auto-responsabilizzante. Inoltre, in ambito minorile, gli effetti positivi della mediazione penale si combinano ulteriormente con l’ opportunità di evitare al minore i tradizionali traumi e stress causati dal normale esplicarsi del procedimento penale.

Chi sono i soggetti della mediazione?

Sono tre: il reo, la vittima e il mediatore ma per attivare il processo è d’uopo che vi siano almeno tre condizioni ovvero il consenso informato e volontario del minorenne autore di reato; il consenso informato e volontario della vittima; l’ammissione di responsabilità da parte del minore autore del reato (che non è una cosa così scontata da avere).

Promotore dell’iniziativa e responsabile della valutazione di fattibilità è il Centro o Servizio che, in seguito, ne dà comunicazione al magistrato competente (Servizi sociali).

Durante il percorso di mediazione penale, il processo penale è sospeso. Al termine della mediazione, viene redatta una relazione sui risultati del percorso che viene inviata all’autorità giudiziaria. In caso di esito positivo, il procedimento penale può concludersi immediatamente.

Dott.ssa Giusy Di Maio, Ordine Degli Psicologi della Regione Campania, matr. 9767

*Il DPR 448/88 che disciplina il sistema processuale penale minorile prevede la realizzazione dell’attività di mediazione, vista la piena rispondenza di questo strumento alle finalità proprie della giustizia minorile. In particolare, gli art. 9, 28 del D.P.R. 448/88 sono considerati gli spazi normativi per eccellenza per l’introduzione delle pratiche di mediazione

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La Sindrome di Stoccolma

Siamo a Stoccolma è il 23 agosto del 1973, ore 10:15. Una banca della Sveriges Kreditbanken viene assaltata da un criminale evaso di nome Jan-Erik Olsson (32 anni).

Olsson prende in ostaggio quattro persone e chiede che gli venga consegnato il contenuto delle casseforti della banca. Ne frattempo, sul posto, arrivano le forze dell’ordine. Cominciano le trattative e una lunga attesa snervante. Olsson, si barrica bene nella banca e forte dei suoi ostaggi, riesce a negoziare per il rilascio di un suo vecchio compagno di cella che lo raggiunge nell’edificio della banca.

Passano tante ore (in tutto saranno sei i giorni del sequestro) e cominciano a filtrare informazioni strane e sorprendenti, dall’interno della banca. Alcuni ostaggi pare abbiano dichiarato di avere piena fiducia nei loro sequestratori, non sembrano avere paura di loro e anzi credono che possano addirittura “proteggerli” dalla polizia. Addirittura durante la successiva liberazione gli ostaggi si frappongono tra i due criminali e le forze dell’ordine venute per salvarli.

La cosa ancora più sorprendente avviene durante il processo dei due rapinatori: i loro ex prigionieri si rifiutano di testimoniare contro i loro rapitori e regolarmente vanno a trovarli in carcere.

Film – Rapina a Stoccolma

Cosa è successo durante i sei giorni del sequestro?

La definizione di “Sindrome di Stoccolma” è stata coniata proprio in occasione di questa rapina, dallo psicologo e criminologo Nils Bejerot, che collaborò con la polizia durante le trattative. Il termine fu usato per la prima volta in una trasmissione televisiva, ma divenne veramente “famoso” dopo la vicenda di Patricia Hearst nel 1974.

Il 4 febbraio del 1974 il sedicente Esercito di Liberazione simbionese rapì Patricia Hearst . Due mesi dopo il sequestro, Patricia, nipote del magnate dell’editoria William Randolph Hearst, fu fotografata con un mitra in mano mentre assaltava ua banca insieme con i suoi rapitori. Successivamente, in un video diffuso dalle reti televisive, dichiarò di essere entrata nell’Esercito di liberazione e rinnegò le sue origini capitalistiche. Aveva assunto lo pseudonimo di Tania.

Quando, però, dopo essere stata arrestata per la rapina in banca, durante il processo nel 1975, sostenne di aver subito violenze fisiche, psicologiche e il “lavaggio del cervello”. I giudici non si convinsero e la condannarono a sette anni di carcere. In seguito Patricia fu graziata da Jimmy Carter nel 1979.

Patricia Hearst – immagini web – rapina in banca con rapitori

In questa particolare condizione psicologica l’ostaggio sposa la causa del suo rapitore fino ad arrivare ad identificarsi con lui. Si schiera dalla sua parte e contro tutti quelli che vogliono “liberarlo” da quella condizione (polizia compresa). Tra il rapitore (carnefice) e l’ostaggio si instaura un legame affettivo apparentemente perverso che probabilmente nasce dall’esigenza della mente di recuperare un equilibrio dopo lo shock della cattura.

Alcuni psicologi ne estendono il significato e includono in questa Sindrome tutti i tipi di attaccamento di una vittima con il proprio carnefice, come nei rapporti di dipendenza caratteristici dei casi di violenza domestica o come nelle relazioni che si instaurano nelle sette religiose o nei campi di prigionia.

Come è possibile che una persona minacciata di morte, detenuta contro la propria volontà prenda le parti della persona che minaccia di ucciderla e che l’ha privata della propria libertà?

La fase della cattura rappresenta un trauma emotivo che lascia tracce profonde; è uno stress psicologico estremo che può indurre una sorta di paralisi. L’individuo è pietrificato e incapace di reagire. La sua mente è così sovraccaricata da un flusso di informazioni estremo, che è impossibile per la persona prendere qualsiasi decisione.

La vittima, in un primo momento è incapace sia di capire ciò che sta realmente succedendo, sia di seguire le più naturali regole per la propria sicurezza (come ad esempio restare inermi e immobili senza mettersi al riparo, nonostante ci sia una sparatoria in corso).

In questo momento sono saltati tutti i punti di riferimento psicologici della persona (vittima). In particolare nelle vittime, nei primi momenti vi è una sostanziale perdita del senso di sicurezza e dell’illusione di “immortalità”. La mente della vittima deve riadattarsi ad una situazione potenzialmente “mortale”. L’idea di poter morire da un momento all’altro si palesa come possibilità evidente. Si rompono tutti quegli schemi e quelle routine che rendono la nostra quotidianità prevedibile e quindi potenzialmente sicura. Nelle situazioni traumatiche come quelle descritte in precedenza, la sicurezza è violata, l’autonomia sulle proprie azioni non c’è più, il cervello non può più pianificare e il caos si sostituisce alle certezze.

In queste condizioni di squilibrio e alla ricerca di un nuovo equilibrio la vittima cerca paradossalmente di costruire una relazione “umana” con il proprio rapitore. Questa relazione sarà fondata sulla dipendenza totale, completamente asimmetrica e che sarà in grado di plasmare e modificare il nuovo sistema di valori della vittima.

Arresto di Olsson

La seconda fase del rapimento (il periodo della permanenza col rapitore) sarà invece caratterizzata da un dipendenza estrema. La vittima infatti dipenderà dal suo carnefice per qualunque cosa: mangiare, dormire, andare in bagno, lavarsi. Questa dipendenza estrema comporta una sorta di regressione ad uno stato precoce dell’infanzia (pre-edipico). Una fase dello sviluppo in cui il bambino è ancora completamente dipendente dalla madre, non è ancora distinto da lei. Alcuni psicologi hanno ipotizzato che le vittime trovandosi immerse in uno schema affettivo e relazionale simile a quello della madre con il bambino, adottano i comportamenti che potrebbe avere un bambino nei confronti dei genitori. E per i genitori proveranno: ammirazione, amore ed identificazione.

Inoltre l’ostaggio sarà in seguito considerato, dal rapitore, alla stregua di una merce di scambio. Perché, attraverso l’ostaggio il rapitore può ottenere dei favori o la propria libertà. In questa condizione l’ostaggio, presa coscienza di questa cosa, si sentirà oggetto. Questo porterà al processo di disumanizzazione della vittima. La disumanizzazione è anch’essa parte della genesi della Sindrome di Stoccolma.

Se passa diverso tempo dal momento del rapimento, l’aggressore sarà costretto a cercare un interlocutore e quindi inevitabilmente parlerà e si rivolgerà alla vittima. Questa sarà così restituita, almeno in apparenza, della sua umanità. Il rapitore sarà così percepito come un modello al quale ci si può identificare. L’identificazione risponde al bisogno di un modello in una situazione di vulnerabilità. Quindi, in una situazione di piena regressione l’ostaggio può identificarsi con l’aggressore e questo lo spinge a condividerne posizioni ideologiche e le rivendicazioni.

Infine, l’avvicinamento tra ostaggio e rapitore è dovuta anche al fatto che attraversano insieme una situazione eccezionale che valutano da un punto di vista in qualche modo simile. Sono interessati entrambi alla libertà.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

Rancore

Cos’ è il rancore? Il rancore è un sentimento spesso difficile da accettare, ma fa parte dell’esperienza e del vissuto di tutti. E sembrerà strano dirlo, ma può avere una funzione positiva perché ci aiuta a reagire nei momenti più dolorosi della nostra vita. Di questo però ne parlerò alla fine. Vediamo cosa si intende per rancore.

Il rancore è un sentimento complesso e nasce dal compendio di diverse emozioni semplici e complesse come rabbia, odio, risentimento, tristezza, astio e disprezzo. Ha qualcosa a che fare anche con emozioni e sentimenti più lontani, ma direttamente correlati come l’invidia (per qualcuno che, dal nostro punto di vista, ha avuto più di noi ingiustamente) e il rimorso ( per non aver reagito nella maniera giusta ad un offesa, ad esempio). Insomma il rancore è un sentimento, uno stato mentale duraturo e pervasivo. La differenza con la rabbia è da rintracciare nella durata (molto più lunga e permanente nel rancore) , nella reazione immediata (della rabbia) e intensa.

Lo stato mentale legato al rancore può restare latente e acuirsi improvvisamente, per poi tornare, presente ma costante. Difficilmente si estingue. La caratteristica pervasiva del rancore è proprio nel ri-sentire, rimuginare a lungo su eventi negativi (un torto subito) che inizialmente si legavano ad emozioni meno complesse, come tristezza o rabbia o odio, ad esempio.

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Il rancore è direttamente collegato ad un dolore più “intimo” che può nascere da una ferita provocata da una relazione che ha tradito le nostre aspettative e che ci ha deluso profondamente.

Spesso il rancore può avere “radici familiari”, dove ad esempio possono capitare squilibri più o meno gravi, legati a preferenze, mancanze affettive percepite, difetti di comunicazione. In questi casi i più piccoli possono avere la peggio e cominciare ad alimentare il proprio rancore. Spesso nei bambini l’impossibilità di esprimere la propria rabbia genera una sensazione di impotenza che si trasforma in pensiero ripetitivo e poi in desiderio di vendetta. Le conseguenze potrebbero poi alimentare comportamenti disfunzionali come il bullismo; il rancore è però anche il sentimento prevalente di molte vittime del bullismo. In entrambe i casi, se non si interviene per tempo, le conseguenze possono essere serie.

In alcuni casi più gravi, negli adulti, il rancore può arrivare a sconfinare nella patologia. Lo si può trovare come sentimento preponderante nel disturbo paranoide di personalità e del disturbo borderline (presente con deliri), ma anche in chi soffre di aggressività patologica.

Insomma il rancore ha meno possibilità di “risolversi” e attenuarsi se resta esclusivamente una esperienza personale e interiorizzata. Come si può quindi convertire in positivo l’esperienza rancorosa? In genere la comunicazione può indurre il superamento e la psicoterapia può decisamente portare ad un cambiamento in positivo, perché attraverso essa si può avviare un processo di reinterpretazione di quella realtà che aveva generato sentimenti di rancore. Una nuova consapevolezza può aiutarci a ripartire e a riprendere di nuovo la nostra vita in mano.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

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Non sono cattivo e insensibile, ho solo bisogno che qualcuno mi veda.

La trattazione sulla “terra di mezzo”rappresentata dall’adolescenza, continua con il provare ad indagare più nel dettaglio il concetto di malessere. Spesso accade che gli adolescenti vengano additati quasi come ragazzi privi di pensieri e sentimenti “che ne sai tu.. che pensieri puoi mai avere.. sei solo un ragazzino!” oppure “zitto tu.. sei solo un piccolo delinquente!”

Accade (spesso) che- proprio quel ragazzino o quella ragazzina- (insensibile, delinquente, spensierato)… celi in se stesso profondi sentimenti, pensieri, emozioni che vorrebbero essere mostrati, compresi, in sostanza: visti.

Immagine personale, “Berlino 2014”.

Cruciani (2015), evidenzia come il concetto di male (e con esso tutto il corredato che dal malessere sfocia in distruttività), non affondi le proprie radici in un terreno prettamente psicoanalitico, e al contempo ne sostiene la possibilità, da parte della psicoanalisi, di non restare impassibili di fronte ad un argomento che attiene a una sfera “più ampia, morale, etica e deontologica, alla quale nessuno può sottrarsi e con la quale anche gli psicoanalisti devono confrontarsi”.

Le domande a cui desidero al momento provare a rispondere, riguardano pertanto il provare a rintracciare una definizione che spieghi cosa sia il malessere che colpisce gli adolescenti, e se sia possibile considerare la violenza agita, una semplice modalità di scarica pulsionale, oppure se di converso, vi sia qualcosa in più.

“L’essere viene meno con ciò che lo sostiene. Questo malessere nell’umanità dell’uomo, in un’ampia area dell’umanità, produce sia questa impregnazione cupa e melanconica che si impossessa degli animi e dei corpi, dei legami intersoggettivi e delle strutture sociali, sia questa cultura dell’eccesso maniacale e onnipotente. La questione che ci interessa è quella relativa ai principali ostacoli che contrastano il processo della soggettivazione, il divenire Io, la capacità stessa di esistere, di stringere legami e di fare società” (Kaës, 2012, p.22).

Il crollo dei garanti metapsichici ha reso l’adolescente sempre più esposto, e lo ha lasciato a “dover fare i conti” con tutto ciò che viene indicato come crisi adolescenziale, in cui “la necessità di risolvere i problemi posti dalla rivoluzione identitaria che coinvolge la corporeità, le relazioni intra ed extrafamiliari, l’assunzione di un ruolo sessuale e simbolico adulto, appaiono ricadere integralmente sulle spalle del singolo, il quale si ritrova spesso sguarnito non solo di adeguati strumenti psichici, ma anche di adeguati punti di riferimento simbolici” (De Micco, 2011). Ne deriva che questa labilità nell’universo di riferimento simbolico, e il relativo crollo delle funzioni di garante metapsichico, porti ad una incapacità di offrire una adeguata risposta ai diversi interrogativi che l’individuo può trovarsi di fronte. La conseguenza sembra allora essere una difficoltà nel collocarsi nella propria identità; questa difficoltà è evidente soprattutto in occidente, dove si assiste al logoramento di alcune forme collettive di garanzia nel senso di identità individuale, con il risultato che l’individuo si affida sempre più a forme simboliche di rifondazione della propria identità.

Le Breton (2002) evidenzia come siano proprio gli adolescenti in particolare, ad essere spesso nella condizione di utilizzare dei riti o atti di passaggio, per lenire tutte quelle angosce identitarie che la fase adolescenziale comporta; “tali atti di passaggio prendono spesso la forma di pseudorituali gruppali o addirittura individuali, e comportano spesso una precisa marcatura corporea” (De Micco, 2011). Ogni individuo infatti, appartiene ad un determinato gruppo sociale, che ha (come precedentemente rimarcato) il compito di fornirgli quella intelaiatura simbolica, che lo identificherà con un corpo (il suo), il nome (il suo) e l’ascendenza (che lo inscriverà in una precisa genealogia, che gli indicherà il posto da occupare). Ciò che il crollo dei garanti metapsichici e metasociali ha comportato, è stato proprio il venir meno di questa intelaiatura simbolica, esponendo il giovane a profonde crisi identitarie, che per essere lenite vengono agite con degli acting -out, che non paiono tuttavia essere delle semplici modalità evacuative, di scarica pulsionale, ma sembrano soprattutto l’espressione di un tentativo di dar forma proprio a tali pensieri non pensabili, tentativo che usa il corpo come mezzo per cercare uno spazio rappresentativo. Tutti questi atti violenti, che sembrano essere in costante aumento, sembrano quindi più che una modalità di arrecare un reale danno alla vittima (non risulta in definitiva importante colui che subisce la violenza), un tentativo di rendersi meno opaco (ai propri occhi e a quelli dell’Altro), e di risanare quello spazio lasciato vuoto da un Io, che cerca continuamente di “avvenire”.

Dott.ssa Giusy Di Maio

Paura o indifferenza? Il caso di Kitty Genovese e l’assunzione di responsabilità.

Nel 1964 a New York, un triste caso balzato alle cronache diede il via a tutta una serie di ricerche nell’ambito della psicologia sociale. Una donna di nome Kitty Genovese venne aggredita durante la notte da un uomo che armato di coltello la colpì ripetutamente, fino a lasciarla a terra agonizzante. Kitty Genovese urlò così tanto, da svegliare 38 persone che ben presto si affacciarono alla finestra. Queste persone riuscivano a vedere cosa stesse accadendo in strada e si vedevano l’un l’altro; nonostante ciò, nessuno di loro chiamò la polizia prima di mezz’ora. Durante questo tempo di stallo però, l’assassino non stette parimenti con le mani in mano, ma anzi.. ebbe tempo di ritornare indietro e continuare ad infliggere ulteriori coltellate alla donna la quale, ben presto morì.

Salvo ulteriori specificazioni, Fonte Immagine “Google”.

Cosa era accaduto?, Perché nessuna di quelle 38 persone chiamò la polizia non appena Kitty Genovese iniziò ad urlare? Gli psicologi hanno pertanto cercato di indagare sperimentalmente la questione, per provare ad evidenziare quali possano essere degli elementi legati alle circostanze che possono influire (spesso in modo determinante) sulla dimensione altruismo/egoismo, prima di mettere in atto una determinata decisione (che spesso andrebbe presa, come in questo caso, in pochi secondi).

Una delle spiegazioni maggiormente utilizzate dagli psicologi, concerne la possibilità di andare a considerare non i vantaggi (per l’individuo o la specie) del comportamento altruistico (in questo caso la possibilità di salvare una vita, o di sentirsi utili), ma le circostanze che, a parità di altre condizioni, rendono più frequente aiutare o meno un’altra persona.

L’ipotesi proposta di basa sul concetto di assunzione di responsabilità: quanto più un individuo si sente investito della responsabilità di intervenire (per aiutare qualcuno o porre rimedio a una determinata situazione), tanto più è probabile che lo faccia. Sono svariate le circostanze che determinano l’essere o il sentirsi responsabili; tra queste ad esempio avere una posizione di “potere” , come essere il capogruppo o il leader. Altre volte sono circostanze accidentali (come il numero degli individui che si trovano sul luogo di un incidente) a determinare se un individuo che chiede aiuto, sarà o meno soccorso. Cosa c’entra quanto appena detto, con il caso di Kitty Genovese?

Due psicologi sociali John Darley e Bibb Latanè, hanno dedicato gran parte della loro ricerca al fenomeno dell’assunzione di responsabilità. Secondo i due autori, è possibile riassumere in cinque punti il processo che porta a prendere o meno la decisione di intervenire.

  1. si presenta una situazione (almeno potenziale) di pericolo
  2. la situazione deve essere definita come un caso di emergenza
  3. la persona che viene a conoscenza del pericolo deve sentire la responsabilità di intervenire in aiuto
  4. questa persona deve avere qualche idea su cosa fare per aiutare
  5. la persona accorre in aiuto.

Il focus delle ricerche dei due autori riguarda il punto 3. Gli psicologi hanno infatti studiato in maniera approfondita le condizioni nelle quali un individuo si sente più o meno responsabile di ciò che accade al suo prossimo. Ciò che viene evidenziato è che non sono tanto importanti le caratteristiche (personalità) di chi deve prestare aiuto, o quelle della persona da aiutare; non è altresì importante l’eventuale pericolosità o gravità dell’intervento. L’ipotesi di Darley e Latanè è invece: quanto più numerose sono le persone che in una data circostanza di pericolo o emergenza sono effettivamente in grado di accorrere in aiuto, tanto meno ciascuna di loro si sentirà investita della responsabilità di agire. In sostanza ciascuno penserà “perchè devo farlo io, sicuramente lo avrà già fatto qualcun altro”.

Sembra quindi che quella sera l’unica “colpa” di Kitty Genovese, sia stata che troppe persone abbiano udito le sue urla disperate.

E voi? Avreste aiutato Kitty Genovese? Pensate di essere persone altruiste oppure no?

Dott.ssa Giusy Di Maio.