“Poi è successo. E’ stato prima favola e fantasia, poi rabbia, delusione.
Fine.
E’ stato -poi- solitudine e dolore.
Assenza.
E’ stato -ancora- rimpianto.
Ricordo.
Ancora rabbia.
Non più desiderio, ma nausea costante e incessante.
Malattia.
Poi…
Ah.. poi è stata la serenità del ricordo.
Luce.
In ultimo, Doc… non è stato più.
Non è più nemmeno il ricordo del ricordo. Ho messo via, con una serenità che mai avrei immaginato anche il ricordo perché quel che è stato non mi riguarda più.
… accade che smetti di ascoltare soltanto e ti metti in ascolto, di te stesso.
Ci sono certi giorni che ti capita di ripensare alla tua storia; ai fantasmi che ti accompagnano, alle ombre che ti solleticano, alle fatiche che ti fanno compagnia e scorgi, tra le sfumature del tuo tempo, atti di coraggio e follia estrema.
E’ facile addentrarsi tra la nebbia dell’esistenza, specie se è la tua?
No. Lo so, ed ecco il motivo per cui, a prescindere, i pazienti godono di un rispetto non indifferente.
Ho letto.. da qualche parte che gli psicologi sono “persone inutili”.
HM (onomatopea dal fare analitico)
La citazione diretta fatta poc’anzi è un giudizio di valore, non un giudizio professionale che -pur se fosse-, risulta comunque un giudizio euristico fatto ad una categoria intera pertanto potenzialmente errato (suppongo comunque che la persona non sia abile nell’uso e nella comprensione dell’italiano… ma così… a sensazione).
Aspè.. prima che il tutto si leghi in maniera troppo stretta… Stavo dicendo qualcosa su quella citazione sull’inutilità mia. La citazione la dice lunga sulle guerre tra, con, chi, che ancora portiamo avanti.
E io sono pacifista nata e cresciuta.
Ne deriva che dico quel che penso, penso quel che dico ed auguro a tutti coloro che ancora pensano che gli psy siano gente degenerata, di finire quanto prima tra le stanze della psy (e non per questioni di parcella, con quella a stento ci paghiamo le bollette), ma per darsi la possibilità di provare a capir(si).
Detto ciò, in maniera per niente lineare ma si sa.. io seguo l’inconscio e l’inconscio ha come sua qualità l’atemporalità, farfugliavo qualcosa sugli atti di coraggio e follia che ci attraversano e attraversiamo.
Un’azione folle e coraggiosa che scuote, smuove, fa tremare i visceri dell’esistenza tua e magari di chi ti sta intorno. Un’azione, una presa di posizione… il tuo essere senza che sia, per gli altri, qualcosa di ordinario e ordinato. Un’azione che svuota lì per lì… ma che riempie, tempo dopo… come acqua a solco di terra secca, arida e crepata.
Muscolo cardiaco che pompa in maniera aspirante e premente che riceve sangue, energia, dalla periferia e lo spinge rimettendo tutto in circolo. Come sangue, la tua essenza raggiunge tutti i vari distretti del corpo assicurando al resto delle cellule ossigeno e il nutrimento per restare in vita.
Ecco… sono abbastanza sicura che quell’azione lì sia stata presente almeno una volta, in tutti noi; ricordala ogni tanto, rivivila e ripetila mentalmente, soprattutto quando le cose sembrano andare molto lontano da ciò che per te, tu desideravi.
(E se ti va bene magari trovi qualcuno che sente il tuo dolore come se -e non allo stesso modo, sostituendosi al tuo sentire- che ti prende sulle sue gambe e ti dondola dolcemente, fino a che la paura passa e i ricordi del coraggio scansano quelli della paura).
Uno studio condotto nel 2011 da Edward Smith della Columbia University (Kross et al., 2011), mostra come la fine di una relazione attivi le stesse aree cerebrali deputate alla percezione del dolore fisico.
Lasciarsi implica una reale sofferenza che si esperisce come vera sensazione dolorosa sia a livello psicologico che fisico.
Sembra che tale sofferenza trovi radici nella questione biologica e più nello specifico, nella questione che fa dell’essere umano un essere deputato alla costruzione di legami sia sociali ma soprattutto amorosi. Ne deriva che quando una relazione cessa, il grado/livello di sofferenza provato è da mettere in relazione con il grado di coinvolgimento che c’è stato nella relazione stessa, la durata della relazione e la consapevolezza rispetto al rapporto ormai terminato (tutte variabili che, tuttavia, non necessariamente vengono avvertite allo stesso modo dai membri dell’ormai ex coppia).
Secondo una ricerca condotta nel 2005 (National Fatherhood Initiative, 2005) le ragioni più comuni che portano una coppia a dirsi “addio”, possono essere raggruppate in alcune categorie:
mancanza di impegno nella relazione
difficoltà comunicative
infedeltà
diminuzione di interesse verso il partner
situazioni di abuso
dipendenze
e così via…
Quando una relazione termina (soprattutto se inaspettatamente), la persona ha una prima reazione definita di shock. Le sensazioni tipiche sono abbattimento, ansia, senso di vuoto, calo della motivazione, ritiro e disinteresse per il mondo circostante oppure depressione vera e propria.
Talvolta a causa del profondo dolore provato, la mente utilizza una strategia di conservazione (meccanismo di difesa) chiamata negazione. La persona sperimenta una sorta di vuoto e di ottundimento emotivo che la distacca dall’evento; ne deriva che la persona si trova ad oscillare tra momenti di profonda sofferenza e momenti in cui agisce “come se” non fosse accaduto nulla.
Tale strategia consente, per così dire, di fare in modo che la persone resti “operativa” nonostante l’enorme sofferenza provata ma il risultato potrebbe, alla lunga, essere quello di incorrere in crisi dissociative o fenomeni di depersonalizzazione.
Ciò di cui la persona non è consapevole -tuttavia- è che perpetuare l’evitamento (esperienziale) non solo non risolve il problema, ma la espone a ondate di dolore qualora queste attività vengano a mancare. In tal senso, è utile che al termine di una relazione la persona riesca ad assumere un atteggiamento di compassione verso se stessa e tenendo conto che i primi mesi sono sempre i più difficili (imparare a vivere il distacco, la solitudine della nuova condizione, immaginarsi e viversi soli, …) darsi il tempo giusto per vivere i sentimenti di vuoto, paura e confusione al fine di procedere successivamente con l’elaborazione dell’evento luttuoso.
“Dottoressa, cazzo! Cazzo! Cazzo! Perché? me lo sa dire il perché di questa fine? Com’è possibile!! Io.. Io non ci dormo la notte, non vivo più di giorno… Mi sento impazzire… Non riesco a mangiare sento un dolore incredibile dentro sa.. come se qualcuno mi stesse bruciando il petto… Come se avessi una fiamma continuamente accesa qui (si indica il cuore). Lo odio, lo odierò per sempre. Questo non è amore!!!
La posso mettere una canzone? Senza che….”
Lo sa, nella sua isola del tempo la regola delle non regole dice che in questo -suo- spazio non ci sono giudizi che giudicano, emozioni da non provare o parole da non dire. Questo è il suo tempo e il suo spazio e io non le leggo la mente o i sentimenti ma la accolgo e contengo.
” Ma se la chiamo durante la notte, posso farlo?”
(…)
“Allora alla settimana prossima, Dottoressa… e comunque: Amore Vaffanculo!”.
Attraverso la storia di Marco scopriamo -insieme- il Disturbo dipendente di personalità. L’uomo ha paura, non riesce a lasciare la madre e vive come bloccato in un eterno presente che lo svuole sempre figlio e mai uomo indipendente.