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Psicologia, Percezione, Gestalt e attribuzione di significati.

Percepire significa innanzitutto prestare attenzione e la memoria pare inevitabilmente legata a tale processo.

Inoltre, dagli studi effettuati dalla Psicologia della Gestalt è stato possibile comprendere alcuni importanti meccanismi alla base dell’esperienza percettiva, in particolare quella visiva. Wertheimer e Kohler affermano che, in generale, un’immagine visiva viene organizzata in una parte centrale e in uno sfondo, come dimostrato dagli studi delle figure reversibili (di Rubin).

Vaso di Rubin

Altro aspetto importante è il raggruppamento percettivo, cioè la tendenza a organizzare gli elementi presenti nel campo visivo in schemi di significato. La Psicologia della Gestalt studia quindi le relazioni tra gli oggetti reali, lo stimolo che forniscono in relazione alla loro forma e il modo in cui l’individuo le trasforma in percezioni.

La Gestalt spiega la percezione degli oggetti attraverso le qualità fisiche dello stimolo – oggetto e dei meccanismi neuro-biologici, non esclude però l’influenza dell’esperienza passata (buona forma).

Le teorie cognitive e quelle della psicologia sociale, sottolineano invece l’importanza che assumono la conoscenza passata, le motivazioni, gli interessi, le relazioni umane nella costruzione attiva dell’esperienza percettiva, che risulta essere estremamente personale e variabile, anche nello stesso individuo, in momenti diversi.

Percepire significa anche attribuire dei significati.

Tale concezione più ampia della funzione percettiva ha dato agli psicologi la possibilità di ritenerla estremamente utile come elemento da valutare nell’ambito della Psicologia Clinica e nella valutazione diagnostica degli individui.

Attraverso le tecniche proiettive risulta infatti evidente il modo in cui il soggetto si relaziona con lo stimolo mostrato e quindi con le sue strutture psichiche profonde come accade ad esempio con il reattivo di Wartegg.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

Cecità al cambiamento

Vorrei la vostra attenzione per pochi minuti per questo piccolo esperimento.

Vi mostrerò un video in cui ci saranno dei ragazzi che si passeranno una palla.

Come è indicato anche nelle istruzioni del video, dovete riuscire a contare quante volte si lanciano la palla i ragazzi con la maglia bianca. Buona fortuna!

The Monkey Business Illusion – test di Daniel J. Simons

Siete riusciti a contare i passaggi? Avete notato nulla di insolito?

Sono curioso delle vostre risposte.. siate sinceri..

Daniel Simons (Università dell’Illinois) e C. Chabris (Harvard University), in questi esperimenti alla fine degli anni novanta del secolo scorso, hanno scoperto che il 50% circa degli spettatori non si accorge del gorilla o degli altri cambiamenti.

Il nostro cervello cerca di sostituire un racconto sensato in base a ciò che vede, eliminando dalla coscienza ciò che è inutile ed incongruente.

L’effetto gorilla, in gergo tecnico “cecità inattentiva” o “cecità al cambiamento”, fa parte di un principio più generale del sistema visivo e cioè che il nostro cervello cerca sempre di costruire un racconto sensato in base a ciò che vede e percepisce.

Proprio a causa di questo principio qualunque elemento che non coincide con il racconto o irrilevante rispetto al compito che siamo intenti a fare, viene spazzato via dalla coscienza.

Un esempio di questo fenomeno di interferenza tra il racconto in atto nel cervello e la percezione è il gioco in cui bisogna scoprire le differenze tra due immagini quasi identiche. In questo caso le immagini proprio perché quasi identiche, verranno percepite dal cervello come totalmente identiche. Solo se ci concentriamo e ci soffermiamo ad osservarle con attenzione saremo in grado di individuare le differenze.

Ecco un altro video. Provate a vedere se notate qualcosa di insolito in questa semplice conversazione tra queste due donne..

1997 – Movie Perception Test – Lewing & Simons

Siete riusciti a notare qualcosa di insolito durante la prima visione della conversazione?

Quei piccoli particolari che ci sfuggono.. In fondo siamo tutti “vittime” di questo fenomeno percettivo.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

La Percezione

Con il termine percezione si intendono quelle funzioni psicologiche che permettono alla persona di acquisire informazioni dall’ambiente esterno, di elaborarle e rielaborarle in maniera complessa a favore del sistema cognitivo e motorio.

Il concetto di percezione si distingue dal concetto di sensazione, che descrive un processo più elementare, provocato essenzialmente da stimoli esterni che agiscono direttamente sugli organi recettori, e che può considerarsi un prerequisito essenziale al processo percettivo.

Affinché abbia luogo la percezione bisogna che ci sia la contemporaneità di tre condizioni: uno stimolo distale (stimolo che emette energia); uno stimolo prossimale (la stimolazione dei recettori sensoriali); il percetto (l’elaborazione degli stimoli).

Il modo in cui il mondo viene percepito determina e caratterizza la costruzione e la conoscenza del mondo, da parte dell’individuo.

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I primi studi sulla percezione hanno contribuito alla conoscenza di questo processo a livello psico-fisiologico; esempio in tal senso, sono gli studi di Weber e Fechner sulle intensità degli stimoli e la loro relazione con la sensazione che ne deriva, rispetto al variare dell’intensità. Da questi studi sono venuti fuori concetti importanti, quali: soglia assoluta e soglia differenziale che stanno ad indicare rispettivamente, l’intensità minima di uno stimolo per essere percepito e la variazione di intensità che uno stimolo deve subire affinché un soggetto ne colga la differenza.

La percezione è stata in seguito studiata anche come funzione legata ad altre funzioni mentali, come l’attività mnestica e l’attenzione. La percezione è parte integrante delle funzioni mentali. Percepire significa innanzitutto prestare attenzione e la memoria pare inevitabilmente legata a tale processo.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

Pillole di Psicologia: I trucchi percettivi della paura.

Ricordate l’articolo di due giorni fa sul tarantismo? (Pillole di Antropologia: Il Tarantismo. | ilpensierononlineare per chi volesse andare a rivederlo).

Ok.. Stasera vorrei parlarvi di un meccanismo cognitivo del nostro cervello che si attiva per gestire la percezione di stimoli considerati “paurosi” dalla nostra mente. Cosa centra l’articolo sul tarantismo?

Provate ad immaginare di essere in una stanza chiusa e piccola. Non avete modo di uscire e la luce è fioca. Nella stessa stanza c’è una grossa tarantola viva che sgambettando (tic tic tic) si avvicina a voi furtiva e curiosa..

Chi ha paura della tarantola avrà la percezione che sia più vicina di quanto è realmente, che invece non ha paura ma prova solo disgusto e ribrezzo può addirittura considerarla più lontana.

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Perché?

In uno studio alla Cornell University di New York che ha coinvolto un centinaio di volontari le reazioni sono state proprio queste: chi temeva il ragno lo percepiva come più vicino di quanto era in realtà a differenza di chi non lo temeva o provava solo disgusto, che addirittura lo percepiva più distante.

Per i ricercatori si possono spiegare queste reazioni e le diverse percezioni considerando ciò che è accaduto come un “trucco percettivo” che aiuta l’organismo a prepararsi in caso di pericolo. Infatti, quando qualcosa ci minaccia e ci spaventa, una delle nostre reazioni istintive è darci alla fuga o al massimo prepararci a lottare. Quanto più la minaccia è vicina, tanto più siamo pronti all’azione. Ritenere e percepire un pericolo più vicino di quanto sia in realtà non fa altro che potenziare il nostro stato di allerta.

Nel caso di situazioni “disgustose”, non c’è bisogno di fuggire o di reagire alla minaccia, ci basta voltarci.

“Finisce bene quel che comincia male”

dott. Gennaro Rinaldi

Non sento il mio corpo: Disturbo di depersonalizzazione- derealizzazione.

Immagine Personale.

Il disturbo di Depersonalizzazione viene classificato nel DSM-5-TR tra i disturbi dissociativi. L’ICD (International Classification of Diseases) prevede invece una singola categoria per i soggetti che presentano depersonalizzazione o derealizzazione: La Sindrome di Depersonalizzazione- Derealizzazione.

Quando parliamo di questo disturbo, a cosa riferiamo?

“Mi sento come fuori dal mio corpo, mentre faccio anche le cose più banali sento come se a muovere il braccio, non sia io.. è come se il corpo non risponda ai miei input.. Mi sento tipo ovattata come se stessi sognando.. continuo a fare le cose cioè.. riesco a parlare, muovermi ma il corpo non mi appartiene più, nel frattempo”.

Il disturbo è caratterizzato da persistenti o ricorrenti episodi di depersonalizzazione ovvero la sensazione di essere distaccati dal proprio corpo. I soggetti con tale disturbo possono avere difficoltà nel descrivere i propri sintomi in quanto appare centrale la sensazione di essere estranei a se stessi. La sensazione comporta il sentirsi come “osservati dall’esterno”, l’essere in un film o in un sogno. La sensazione è quella di una anestesia sensoriale in cui risulta che il corpo sia come privo di vita, intorpidito o come avente delle parti scollegate tra loro.

Queste sensazioni sono accompagnate da vissuti di profonda ansia o panico; la persona può riferire di sentirsi un pupazzo o un burattino non padrone del proprio corpo.

L’esperienza di derealizzazione, che si riferisce specificatamente alla sensazione di estraneità rispetto al proprio ambiente, fa parte del disturbo di depersonalizzazione e l’ambiente viene descritto come piatto, confuso, distante, dai colori indistinti e lontano dalla propria percezione emotiva.

L’esame di realtà resta integro pertanto si mantiene consapevolezza, ad esempio, del fatto che l’estraneità provata rimanga nel dominio delle sensazioni. Ma nonostante il mantenimento dell’esame di realtà integro, la sensazione esperita provoca profondo disagio interferendo con il funzionamento sociale e lavorativo.

In realtà i sintomi da depersonalizzazione sono piuttosto comuni pertanto per ottenere un diagnosi di tale disturbo, occorre che i sintomi siano così invalidanti da rendere quasi impossibile un corretto funzionamento sociale e lavorativo.

I sintomi come la depersonalizzazione sono molto comuni in tutta una serie di patologie (schizofrenia, disturbo dissociativo dell’identità, depressione, disturbo di ansia, ..) ecco perchè è importante procedere con una diagnosi differenziale.

E’ necessario differenziare il disturbo di depersonalizzazione dai sintomi che si possono manifestare in seguito ad altra condizione medica specifica (epilessia del lobo temporale, ad esempio).

Abuso di sostante stupefacenti , Ansia o intossicazione acuta (o astinenza) da alcool, provocano gli stessi sintomi; così come la schizofrenia.

Si stima che nel corso della vita circa il 50% della popolazione generale (in maggioranza donne sotto i 40 anni), abbia sperimentato almeno un episodio di depersonalizzazione.

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

Non ho scelta?

Immagine Personale.

Il libero arbitrio esiste davvero?

Secondo studi recenti il libero arbitrio non è pura e semplice illusione. Questa conclusione nasce da tutta una serie di ricerche condotte su ciò che prende il nome di “prontezza motoria”, ovvero, l’inizio dei movimenti volontari che scaturiscono in seguito ad attività cerebrale che inizia circa un secondo prima che il gesto stesso inizi, ovvero, prima del momento in cui decidiamo consciamente di eseguire il movimento.

Questo fenomeno è stato interpretato come la prova che la decisione viene presa da processi neurali inconsci (fuori dal nostro controllo) indicando invece la percezione dell’intenzionalità come una illusione prodotta a posteriori dai nostri meccanismi mentali.

In seguito, però, ad un lavoro pubblicato sui “Proceedings oh the National Academy of Sciences”, da Matthias Schultze-Kraft, dell’Università di Berlino, il libro arbitrio è tornato alla ribalta.

Il ricercatore sostiene di “aver verificato se i partecipanti riescono a vincere un duello contro una interfaccia cervello- computer che prevede i loro gesti leggendo l’attività cerebrale inconscia che li precede”.

L’esperimento consiste nella seguente situazione:

Il soggetto impara a premere più volte un pedale e a bloccare il gesto se vede una luce rossa accendersi. Quando la macchina avverte che il piede si prepara inconsciamente a muoversi (essendo il soggetto provvisto di elettrodi), può accendere la luce; se la scelta del soggetto fosse irrevocabile egli stesso non riuscirebbe a fermare l’azione. Le ricerche hanno invece mostrato altro.

Spesso accade che il soggetto riesce con uno scarto di 200 millisecondi, ad interrompere il movimento. Questo studio ha dato prova dell’importanza dell’intenzionalità.

L’intenzionalità e la volontà hanno molto più spazio di quanto i ricercatori avevano in precedenza, immaginato.

L’attività inconscia prepara il gesto, ma la volontà può fino alla fine, modificare la decisione; volontà che riesce persino a battere il potere dell’intelligenza artificiale.

La volontà e la possibilità di scegliere restano i nostri migliori alleati.

“Finisce bene quel che comincia male”

Dott.ssa Giusy Di Maio.

Prima i colori o il linguaggio?

Fonte Immagine Google.

Per molti anni i ricercatori hanno sostenuto l’importanza rivestita dal linguaggio circa la percezione del mondo.

La centralità del ruolo (primario) rivestito dal linguaggio stesso, è stata messa in dubbio in seguito a uno studio pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences” da Jiale Yang e colleghi, della Chuo University.

I ricercatori hanno dimostrato una tesi opposta a quella sostenuta da molti linguisti, riferendo in particolare al tema ampiamente dibattuto sul modo in cui (e se) il linguaggio influenzi la percezione dei colori.

Alcuni studi provano che le categorie di colori presenti in lingue della stessa famiglia sono più simili di quelle appartenenti a famiglie linguistiche diverse; esistono – d’altra parte- categorie percettive fondamentali comuni a tutte le lingue il che fa supporre l’universalità dei colori.

Un esperimento condotto su 24 bambini dai 5 ai 7 mesi, conferma la seconda ipotesi.

L’esperimento è stato condotto con la tecnica della spettroscopia nel vicino infrarosso (tecnica non invasiva che misura il flusso ematico del cervello); i ricercatori hanno osservato l’attività della corteccia visiva dei bambini mentre osservavano l’alternarsi di figure geometriche di colori diversi (blu e verde) o dello stesso colore ma con sfumature diverse.

La spettroscopia ha evidenziato cambiamenti nella risposta neuronale agli stimoli solo quando si passava da un colore all’altro, dando prova del fatto che il cervello sia capace di distinguere tra colori con attributi percettivi diversi.

Per i ricercatori, l’esperimento mostra che alcune categorie di colori “esistono” nel cervello ancora prima del linguaggio; ciò che il linguaggio e il lessico faranno in un secondo momento, è rafforzare e raffinare queste categorie già preesistenti.

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio.

Il giocattolo preferito..

Fonte Immagine “Google”.

“Il volto umano è il giocattolo preferito dai bambini; si muove, è colorato, è simmetrico, è tridimensionale, è caldo o freddo, si tocca, si lecca, si bacia e resiste agli attacchi che il bambino fa”.

Questo è un concetto – da me esteso- espresso da un mio Professore. Il viaggio di oggi ci porterà alla scoperta della vista e all’importanza che questa ha, nello sviluppo dell’essere umano.

Buona Lettura.

E’ opinione comune che i bambini alla nascita siano ciechi ovvero, che i bambini non siano da subito capaci di distinguere forme, colori o geometrie. Alla nascita, il sistema visivo appare anatomicamente e fisiologicamente completo; l’occhio infatti, cresce principalmente durante la gravidanza (nella vita intrauterina) al pari del cervello, mentre nello sviluppo successivo (rispetto ad altre parti del corpo), avrà uno sviluppo minore.

Il sistema visivo quindi, seppur formato è – alla nascita- ancora immaturo. Il neonato ad esempio, non ha la capacità di accomodare il cristallino per mettere a fuoco gli oggetti che siano a distanze diverse mentre può avere una immagine chiara a circa 20 cm di distanza; distanza questa che è pari alla “lontananza” esistente tra il neonato e chi si prende cura di lui (chiunque abbia in braccio il bambino).

Il neonato osserva il mondo esterno attraverso quella che è la visione periferica ovvero, attraverso le cellule a bastoncelli attraverso cui percepisce differenze di luce e buio fumando i contorni degli oggetti. La macula (atta alla visione centrale- coni), inizia a svilupparsi intorno al primo mese per concludere tale sviluppo intorno all’ottavo; in tal modo il bambino riesce a distinguere anche oggetti molto piccoli e le sfumature, il bambino può poi percepire – in tal modo- anche la profondità.

La possibilità di avere un volto vicino, offre al neonato l’opportunità di discriminare tale persona dagli estranei e ha il grande potere di iniziare a presentare al bambino le differenze i movimenti e le emozioni.

I bambini infatti, nascono equipaggiati per avere elle specifiche preferenze. Grazie alla tecnica della preferenza visiva (Fantz,1961) è stato dimostrato che i neonati prediligono oggetti tridimensionali a quelli bidimensionali e che siano in movimento; figure a sfondi omogenei e linee curve a quelle dritte (il cerchio è meglio del quadrato) vengono preferite infatti figure che non siano spigolose ma armoniche e tondeggianti; a un mese si preferiscono figure poco complesse, mentre con il crescere dei mesi aumenta l’interesse per quelle più complesse.

Secondo Johnson e Morton (1991), vi è un meccanismo innato di rilevazione del volto; tale meccanismo è sintonizzato sulle tre macchie che sono rappresentate dagli occhi e la bocca. I due autori ritengono che si possano individuare due stadi nello sviluppo della percezione del volto:

  1. un riflesso innato che induce il lattante a voltarsi e osservare forme che riproducono un volto
  2. dopo molte settimane di esposizione al volto, i bambini diventano in grado di discriminare e spostare l’interesse sulle parti interne del volto stesso; si riesce così a discriminare volti diversi.

La crescita e lo sviluppo del sistema visivo va quindi di pari passo con l’adattamento che il bambino fa al proprio ambiente di provenienza e allo sviluppo cognitivo. Quello che è interessante è che man mano che si procede con lo sviluppo, la componente innata e la predisposizione all’elaborazione dell’informazione che questa comporta, lascia spazio a quella che sarà l’esperienza (e il suo consolidarsi), e la memoria.

“Finisce bene quel che comincia male”.

Dott.ssa Giusy Di Maio.