Anche a te capita di voler distruggere tutto?
Scopriamo qualcosa su questa emozione di base: la rabbia.
“Finisce bene quel che comincia male”
Dott.ssa Giusy Di Maio
Anche a te capita di voler distruggere tutto?
Scopriamo qualcosa su questa emozione di base: la rabbia.
“Finisce bene quel che comincia male”
Dott.ssa Giusy Di Maio
L’autolesionismo è un problema abbastanza diffuso, in particolare tra i giovani. Ha un peso specifico non indifferente nelle vite delle persone che ne soffrono e per le loro famiglie. Potremmo definire l’atto autolesionistico come un atto e un’espressione fisica di un dolore psichico profondo, per lo più celato e difficilmente condivisibile.
Buon Ascolto!
“Nessuno può farti più male di quello che fai tu a te stesso.”
Mahatma Gandhi
“Finisce bene quel che comincia male”
dott. Gennaro Rinaldi
In passato ho già descritto -.brevemente- secondo la teoria di Melanie Klein, l’aggressività in termini psicodinamici. Oggi voglio invece parlare della rabbia intesa come emozione centrale del e per l’essere umano.
La rabbia è un’emozione prototipica perché in essa si possono identificare un’origine funzionale, antecedenti, manifestazioni espressive e modificazioni fisiologiche. La rabbia può essere osservata anche nei bambini molto piccoli (è un’emozione primaria) anche se viene inibita dalla cultura (o modificata) .
Secondo autori come Stenberg e Campos, la rabbia è osservabile anche in bambini di pochi mesi; secondo i due autori -infatti- in bambini di 4/7 mesi è stato possibile evidenziare la presenza di espressioni facciali e vocalizzi riconducibili alla rabbia.
Le espressioni facciali della rabbia sono riconoscibili in tutte le culture e secondo un test (test di Rosenzweig), sembra che le persone aggressive siano più portate a tollerare l’ira altrui.
Averill sostiene che siamo più portati ad arrabbiarci con le persone a cui vogliamo bene, coloro con cui siamo affettivamente legati (sembra che la motivazione sia nel fatto che queste persone possano farci del male molto più facilmente; che abbiamo paura di perderle e che queste possano più facilmente modificare un comportamento che mal tolleriamo, se abbiamo una discussione).
La storia di V. il ragazzo che brucia.
Il colloquio con V., si presenta come uno di quegli incontri di difficile gestione perché il ragazzo ha mostrato fin da subito (motivo dell’invio fatto dal Tribunale dei Minori), una crescente e ingestibile rabbia/aggressività.
V. è un ragazzone di 18 anni (compiuti pochi giorni prima del nostro incontro); appare come un giovane in sovrappeso, vestito molto alla moda.. una moda che lo penalizza e lo fa apparire goffo. Il jeans è di almeno una taglia più piccola ed evidenzia i suoi kg di troppo rendendone lento il movimento nello spazio; ha una felpa grigia che non appare proprio pulitissima, un giubbino piumino extra lucido di un colore improponibile; le unghie delle mani distrutte tanto da mostrare carne viva morsa e lacerata dai suoi affilati denti ma.. la cosa che colpisce ancora di più è l’evidente occhio (destro) nero, il labbro fratturato e diverse cicatrici (più o meno recenti) sul volto.
I diversi colloqui saranno tenuti tutti in lingua; l’uso della lingua napoletana non è dovuto all’incapacità del ragazzo di usare l’italiano ma alla sua personale sfida verso gli interlocutori
“Si fa come dico io.. dice V., o me ne vado”
Inizialmente gli è stata data l’illusione di avere le redini del “gioco” anche se di fatto.. così non è stato.
V. ti guarda con occhi di fuoco, occhi che difficilmente ho visto nella mia vita; non è semplice rabbia quella che lo attraversa. V., brucia il mondo circostante, non vive nello spazio ma lo rende cenere analizzandolo con quegli occhi rossi di livore; occhi al veleno che sputa ad ogni parola gettata su chi ha innanzi nella speranza di “avvelenarlo”, come hanno fatto con lui.
La storia di V è complessa e per diverse ragioni ho deciso di saltare molti passaggi. Posso dire che il ragazzo è stato vittima di abusi nella vita; abusi fisici e psicologici continui, costanti e pressanti. Ha vissuto rimbalzato tra case famiglia e/o tutori di turno incontrando anche in questi ambienti il degrado, il freddo e il gelo; gelo a cui ha deciso di rispondere bruciando (anche solo con lo sguardo) ogni cosa.
V., sembra non capire perché sia da noi, certo.. ha bruciato diverse persone usando la lama del coltello riscaldata con l’accendino, si è spesso cacciato in risse, fa piccoli furti.. ma a lui non interessa.
(Vista la complessità, il lavoro su V., è stato condotto in equipe lavorando con la neuropsichiatra infantile, anche se il ragazzo dal momento dell’invio – in cui era minorenne-, al primo colloquio è diventato maggiorenne, l’assistente sociale, la psicoterapeuta e la psicologa).
Ti guarda e ti brucia, percepisci solo quello quando guardi V., non saprei come altro descrivere la sensazione di calore che gli occhi di quel ragazzo ti inviano. I giorni passano, le sedute si susseguono e l’unica cosa che sembriamo ottenere è che V, torni (le altre colleghe pensavano che lui non sarebbe tornato, io si). Percepisco in tutto quel fuoco piccole risorse disseminate; risorse che si presentano come piccolissime gocce di acqua pronte a rendere meno vive le fiamme di V.
Decidiamo di provare con la boxe; proviamo in sostanza a veicolare la rabbia in qualcosa che sia costruttivo e non distruttivo. V non capisce il senso di tirare cazzotti a vuoto o in maniera regolare, ma giorno dopo giorno sembra prendere coscienza della possibilità di trovare sfogo, senza distruggere per davvero ma solo “per finta”; tirando cazzotti “a vuoto” capendo che anche solo “provare a fare a botte”, provare, può diventare un mezzo per sentire.
Il percorso di V., sarà lunghissimo.. una fatica immane volta a prendere a cazzotti tutto il passato, una storia che il ragazzo non voleva percorrere di nuovo, sentendola come estranea e altro da sé: “Io non sono quel finocchio che prendeva botte, io scasso tutto e tutti”.
Una volta mi chiese perché io facevo le domande e non rispondevo mai; gli ho ricordato che noi non eravamo lì per me e che se voleva poteva farmi una sola domanda a cui avrei risposto, poi basta.
V., mi guarda e sfoderando un perfetto italiano dice
“Dottoressa lei è una che non ama il freddo, vero?”
“Finisce bene quel che comincia male”.
Dott.ssa Giusy DI Maio.
Cos’ è il rancore? Il rancore è un sentimento spesso difficile da accettare, ma fa parte dell’esperienza e del vissuto di tutti. E sembrerà strano dirlo, ma può avere una funzione positiva perché ci aiuta a reagire nei momenti più dolorosi della nostra vita. Di questo però ne parlerò alla fine. Vediamo cosa si intende per rancore.
Il rancore è un sentimento complesso e nasce dal compendio di diverse emozioni semplici e complesse come rabbia, odio, risentimento, tristezza, astio e disprezzo. Ha qualcosa a che fare anche con emozioni e sentimenti più lontani, ma direttamente correlati come l’invidia (per qualcuno che, dal nostro punto di vista, ha avuto più di noi ingiustamente) e il rimorso ( per non aver reagito nella maniera giusta ad un offesa, ad esempio). Insomma il rancore è un sentimento, uno stato mentale duraturo e pervasivo. La differenza con la rabbia è da rintracciare nella durata (molto più lunga e permanente nel rancore) , nella reazione immediata (della rabbia) e intensa.
Lo stato mentale legato al rancore può restare latente e acuirsi improvvisamente, per poi tornare, presente ma costante. Difficilmente si estingue. La caratteristica pervasiva del rancore è proprio nel ri-sentire, rimuginare a lungo su eventi negativi (un torto subito) che inizialmente si legavano ad emozioni meno complesse, come tristezza o rabbia o odio, ad esempio.
Il rancore è direttamente collegato ad un dolore più “intimo” che può nascere da una ferita provocata da una relazione che ha tradito le nostre aspettative e che ci ha deluso profondamente.
Spesso il rancore può avere “radici familiari”, dove ad esempio possono capitare squilibri più o meno gravi, legati a preferenze, mancanze affettive percepite, difetti di comunicazione. In questi casi i più piccoli possono avere la peggio e cominciare ad alimentare il proprio rancore. Spesso nei bambini l’impossibilità di esprimere la propria rabbia genera una sensazione di impotenza che si trasforma in pensiero ripetitivo e poi in desiderio di vendetta. Le conseguenze potrebbero poi alimentare comportamenti disfunzionali come il bullismo; il rancore è però anche il sentimento prevalente di molte vittime del bullismo. In entrambe i casi, se non si interviene per tempo, le conseguenze possono essere serie.
In alcuni casi più gravi, negli adulti, il rancore può arrivare a sconfinare nella patologia. Lo si può trovare come sentimento preponderante nel disturbo paranoide di personalità e del disturbo borderline (presente con deliri), ma anche in chi soffre di aggressività patologica.
Insomma il rancore ha meno possibilità di “risolversi” e attenuarsi se resta esclusivamente una esperienza personale e interiorizzata. Come si può quindi convertire in positivo l’esperienza rancorosa? In genere la comunicazione può indurre il superamento e la psicoterapia può decisamente portare ad un cambiamento in positivo, perché attraverso essa si può avviare un processo di reinterpretazione di quella realtà che aveva generato sentimenti di rancore. Una nuova consapevolezza può aiutarci a ripartire e a riprendere di nuovo la nostra vita in mano.
“Finisce bene quel che comincia male”
dott. Gennaro Rinaldi
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Nel momento in cui eri lì al sole; un sole che ti avvolge come in uno di quegli abbracci infiniti.. senza tempo, senza spazio.. Quel tipo di abbracci che hanno un odore specifico, un sapore tutto loro.. dolce, acre, stucchevole, salato…
Una cadenza.. un ritmo..
Una salsa.. una rumba..
L’abbraccio che cinge ma non stringe perché apre alla bellezza della possibilità..
Ecco che arriva la notizia: Campania arancione..
Embè.. Bell e buon?
La risposta alla frustrazione diventa un pezzone e il mood è quello da manifestazione aggressiva.. Manifestazione da bandiera e assembramento…
E quanto era bello…
Toh..
Dott.ssa Giusy Di Maio.
“Una modalità di difesa frequente è quella di stimolare l’invidia negli altri con il proprio successo, con la ricchezza e la fortuna, rovesciando così la situazione di chi sperimenta l’invidia”.
M. Klein.
L’invidia è un sentimento di rabbia perché un’altra persona possiede qualcosa che desideriamo e ne gode; l’impulso invidioso mira a portarla via o a danneggiarla. Questo in sostanza il pensiero di Melanie Klein…
Quanto siamo arrabbiati e/o invidiosi?
Dott.ssa Giusy Di Maio
Questa sera ripropongo un articolo di qualche tempo fa sull’autolesionismo. Un problema abbastanza diffuso tra i giovani e i meno giovani, che ha un peso specifico non indifferente nelle vite delle persone che ne soffrono. L’espressione fisica di un dolore per lo più celato, non condivisibile.. ma spesso l’impossibilità del non detto e dell’espressione emotiva, diventa emulazione pericolosa. Insomma un problema molto complesso e dalle tante sfaccettature. Buona lettura!
L’autolesionismo (in adolescenza) si potrebbe definire come una forma di aggressività auto diretta atta a “scaricare e svuotare” una sensazione di “pieno” malessere interiore che può essere legato a situazioni personali o interpersonali.
È
un fenomeno comportamentale già ampiamente trattato e discusso in letteratura.
Ha radici ampie e molto profonde nelle persone, nella società, nelle diverse
culture e religioni.
Negli ultimi anni questo comportamento pare abbia assunto connotazioni differenti. Difatti la diffusione delle immagini e dei video degli “atti” di self injury, attraverso la rete e i social, funge da rapido “veicolo contenitore” e da amplificatore, per le nuove generazioni di adolescenti. Questi “luoghi del virtuale” raccolgono l’espressione di una collettività che vuole restare invisibile, ma che cerca la visibilità e che si serve del mezzo virtuale per trovare altri simili e limitare così la solitudine che…
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Negli ultimi tempi in molte famiglie è cresciuto l’interesse per le emozioni dei bambini e dei loro vissuti personali. Questo interesse ad approfondire e sensibilizzarsi alle necessità dei bambini è decisamente una cosa molto positiva. Ma questo interesse, a quanto pare, va di pari passo con la necessità di molti genitori di evitare nei loro figli l’emergere di emozioni negative e quindi assolutamente da nascondere.
Per molti adulti, il modo più semplice per evitare (ed evitarsi) sensazioni spiacevoli e frustrazioni (rabbia, tristezza, pianto) è quello di abolire l’uso del “no”. C’è infatti una abitudine molto condivisa nelle giovani coppie di genitori “a lasciar perdere” a “non porre dei limiti” ai propri piccoli.
Le reazioni di frustrazione dei bambini, sono abbastanza normali e comuni, semplicemente perchè i bambini piccoli, sono ancora caratterizzati da un egocentrismo molto marcato. Quindi questa loro “posizione cognitiva” li porta a voler avere tutto, e a voler vedere soddisfatte tutte le loro richieste e tutti i loro desideri, subito. Purtroppo la maggior parte dei genitori davanti alla possibilità di una reazione “esagitata” e negativa del bambino, tendono ad assecondare tutte le richieste e spesso a concedere anche di più. Queste concessioni spesso non sono pensate e possono portare qualche volta a conseguenze spiacevoli.
Pare che la tendenza degli adulti è quella di voler rimandare, in qualche modo, il periodo dei divieti, delle regole e dei no, all’adolescenza. o almeno ai primi anni di scuola primaria (7-8 anni), dove l’intercessione e l’aiuto sperato della scuola e degli insegnanti può rivelarsi a quel punto un po’ caotico. Spesso infatti tanti conflitti tra le famiglie e la scuola hanno origine nella gestione del comportamento dei bambini a scuola.
I primi “no” hanno un ruolo importantissimo nello sviluppo del bambino e con essi le prime emozioni negative. Lo stesso Psicologo infantile René Spitz mostrò l’importanza delle proibizioni fin dal primo anno di vita del bambino. In particolare Spitz studiò le interazioni adulto – bambino sin da quando quest’ultimo comincia a muoversi in maniera indipendente e volontaria (quando gattona o muove i primi passi e comincia a manipolare con interesse gli oggetti) e quindi può fare cose che lo possono mettere in pericolo. Egli mostrò che il bimbo piccolo, in genere, ripete verbalmente il no dell’adulto, accompagnandolo anche con il gesto della negazione con la testa. Tuttavia capita che il bambino torni sull’oggetto “proibito”, perché troppo attratto da esso, pur continuando a ripetere il “no”. L’adulto spesso interpreta questo movimento verso l’oggetto negato del bambino, come un atto di sfida. In realtà non è proprio così, in quel caso il bambino ha bisogno solo di avere una conferma e quindi anche di una risposta coerente, che lo possa portare ad “apprendere” quel no.
Insomma, secondo Spitz, l’esperienza del “no” è una tappa fondamentale per lo sviluppo del bambino piccolo, che coinvolge sia aspetti emotivi che cognitivi. Infatti, identificandosi con la madre, che attraverso la negazione di un atto, gli sta infliggendo una frustrazione, il bambino ne riesce ad interiorizzare il divieto e il significato di questo, così potrà poi superare la sensazione di frustrazione in maniera positiva. In questo modo, compare per la prima volta anche una parola (il no), che prende un significato e sostituisce un gesto o un’azione.
Grazie all’uso dei primi “no” diventa possibile uno scambio reciproco, comunicativo, che genera le prime astrazioni. Il no quindi ha un significato determinante anche per la strutturazione dell’identità e per il carattere del bambino, che avrà la possibilità di far fronte alle frustrazioni e alle difficoltà.
Il divieto e la negazione, provocano certamente un disagio e malessere nel bambino, ma di contro rappresentano una fase di sviluppo importante.
Ma affinchè il “no” funzioni bisogna sia usato con coerenza e fermezza, ciò non vuol dire che bisogna dirlo in modo adirato, anzi il contrario, deve essere utilizzato con tono pacato, ma fermo e sempre motivato. Dirlo in maniera adirata creerebbe solo confusione e non avrebbe un peso comunicativo adeguato. Ovviamente ai no devono assolutamente essere collegati molti “si”, anch’essi coerenti e adeguati.
Insomma l’uso dei “no” deve essere un’occasione anche per gli adulti, per “crescere” insieme al bambino, come genitori consapevoli dell’importanza del loro ruolo e della chiarezza della comunicazione nelle relazioni con i propri bambini.
“Finisce bene quel che comincia male”
dott. Gennaro Rinaldi